Studio Roma è un programma di ricerca transdisciplinare dell’Istituto Svizzero di Roma, che offre borse di studio a giovani artisti e ricercatori, sostegni alla mobilità internazionale e soggiorni di ricerca per studiosi finalizzati a costruire nuove pratiche pedagogiche nella produzione artistica e scientifica.
Studio Roma è lo ‘studio d’artista’ metropolitano, quest’ultimo un riferimento cruciale e punto di riferimento fisso. Un luogo di produzione, trasformazione e lavoro in cui verificare il ruolo e il potenziale dell’arte e dei saperi. Spazio tra il dentro e il fuori, dove la ricerca non è vincolata a un risultato immediato e lo sperimentare non è mai tragico, bensì preludio.
Con i suoi laboratori e workshop, le ricerche sul campo, gli eventi e le letture in comune, Studio Roma combina e sostiene la mutua interdipendenza di tre forme di sapere: la scienza (epistéme), la pratica (pràxis) e la produzione (poíesis). Questo approccio è radicalmente alternativo a quegli indirizzi che muovono da una prospettiva disciplinare. Studio Roma raccoglie la sfida imposta dal sapere stesso, proponendo un approccio “per temi”. Ogni anno verrà individuato un tema di lavoro con cui modellare un sapere trasformativo e generativo capace di mettere in crisi lo specialismo e i sistemi di regolazione stabiliti. Tale metodo vuole fuggire ogni standard del fare ricerca per scorgere paesaggi fuori misura, ibridi assemblaggi tra esperienze, competenze e formalizzazione dei saperi. Una strada non lineare, che conosce la grammatica del paradosso ed esalta le frizioni, talvolta decisive, per esplorare un’epistemologia dalle traiettorie multiple, utile a problematizzare il presente anziché ripetere facili risposte.
L’obiettivo è superare quelle strette divisioni disciplinari e la segmentazione del sapere accademico che nel mondo della formazione separano chi conosce e chi no (non ancora). Studio Roma vuole affermare nuove gerarchie qualitative e intensive che non siano meramente riproduzione del già dato; relazioni differenziali oltre le polarizzazioni tra arte e scienza, formazione e ricerca, sapere formale e informale.
Tale metodo innesca relazioni produttive tra differenti campi di applicazione, premessa per una conoscenza capace di effetti, implicazioni e concrete aperture.
Studio Roma è inoltre una piattaforma digitale, un archivio, una biblioteca multimediale; promuove pubblicazioni e analisi di sfondo sui temi che riguardano i nuovi modelli epistemici, metodologici e di valutazione delle scienze sociali, approfondendo forme di ricerca transdisciplinare ed esplorando originali percorsi curriculari.
L’ambizione è definire un nuovo significato di eccellenza nella produzione di sapere, intesa come capacità di connettere modelli altamente distributivi di comunicazione a forme intensive della cooperazione.
Studio Roma è un territorio eccedente i luoghi classici della formazione, il modello per un istituto di ricerca internazionale delle arti, della cultura e delle scienze.
Il programma di Studio Roma è composto di alcune attività classiche mutuate dal contesto accademico e altre decisamente sperimentali, provenienti dal mondo artistico. Tale eterogeneità non ci mette tuttavia a riparo dal rischio della ripetizione di formati già visti, né dall’uso di un linguaggio immobile o retorico. Non è quindi scontato porsi alcune questioni che interrogano tanto lo statuto del sapere e dell’arte, quanto le istituzioni che ne sono veicolo. Come rendere non scontata la conferenza di un professore universitario? Come si ripensano formati ormai diventati uno stanco rituale? Come rendere imprevedibile l’esito di un seminario di ricerca? Come problematizzare la lineare convergenza verso lo standard dell’accademia oggi così in voga nelle istituzioni artistiche?
Studio Roma indaga il ruolo degli artisti nel rapporto tra arte e accademia, sempre più contrassegnato dalla crescente corrispondenza della produzione artistica con i modelli e i formati propri dell’università. Elementi così vari, che sono stati, forzosamente omologati, potrebbero potenzialmente sprigionare nuove combinazioni relazionali. Si staglia così l’emergenza di ampliare il campo della ricerca a modalità di indagine sprovviste di regole definitive, non perché siano prive di rigore, ma poiché nessun metodo, di per sé, costituisce la griglia di un percorso obbligato. Maneggiare il sapere e proporre originali gerarchie, ci impone di considerare le discipline come tracce di un’inchiesta, sempre liminali e mai definitive. L’indagine sui formati permette quella necessaria libertà di cui ha bisogno la ricerca: una libertà utilizzabile solo a patto di produrla.
I formati di Studio Roma si muovono su tracce che non vivono nella griglia del sapere disciplinato, ma in ciò che ne resta visibile dopo il terremoto. Sono l’insieme d’interazioni irriducibili a identità già conosciute, il tentativo di andare oltre la bolla dell’accademismo che rende i saperi impermeabili al loro esercizio e che ne riduce gli effetti entro un campo tanto isolato quanto forzatamente coerente. Il programma di Studio Roma sperimenta un rapporto tra esperienza e prassi dove la specificità di un dato sapere coesiste alla sua trasversalità, dove la produzione di conoscenza è immediatamente anche sua necessaria condivisione. Interrogare i formati e comporre diverse attività significa aprire intimamente un’istituzione, farsi istituente e variabile.
Le innovazioni più radicali e interessanti, anche a livello istituzionale, prendono forma in un quadro composito, parziale e decisamente non lineare. Nessun soggetto è sufficiente a se stesso per poter ripensare, in modo efficace, le forme di produzione dell’arte e del sapere. Studio Roma esplora un metodo di “ricerca in comune”, basato sulla presa di parola e la discussione, interroga le pratiche di attori individuali e collettivi. Un tentativo per dare forma al non ancora e provare a immaginare l’inedito attraverso una narrazione ricca, articolata da voci dissonanti e una pluralità di posizioni, dove il livello estensivo della discussione intreccia quello intensivo dell’organizzazione istituzionale. Le ricerche costituiscono, da un lato, l’immediata attivazione di reti e institution building; dall’altro, orientano le stesse scelte del programma in modo pubblico, esaminandone i campi problematici, focalizzando le sfide e formulando le pratiche istituzionali nel complesso delle sue ipotesi di lavoro.
Le Call for Paper La circolazione dello spazio di dibattito e la presa di parola contingente, espresse da Studio Roma Gazette, sono affiancate da un ulteriore strumento che attiva campi di riflessione e conoscenza. Le Call for Paper sono ricerche commissionate da Studio Roma e rivolte a studiosi, artisti, giovani ricercatori e non-accademici, con il compito di elaborare, in modo originale, tematiche inerenti il programma di Studio Roma, aprire originali orizzonti e suggestive linee prospettiche. Queste ricerche ci permettono di ampliare alcune problematiche, focalizzare le sfide pedagogiche e, al contempo, orientare le decisioni e le relazioni istituzionali del programma transdisciplinare. Alcuni temi, non esaustivi ma propedeutici, sono: il processo di valutazione nella ricerca e nell’insegnamento a livello europeo; la nozione di eccellenza e di merito; indagine sul metodo transdisciplinare; la traduzione culturale e linguistica; il concetto di differenza nelle discipline accademiche; la produzione di gerarchie spaziali e cognitive nella circolazione dei saperi; le pratiche educative nelle istituzioni accademiche, artistiche e culturali; il tema dell’e-learning e dell’interfaccia nell’apprendimento; gli archivi e le fonti della ricerca nel mondo digitale; il rinnovamento delle scuole d’arte; l’accademismo crescente nel sistema artistico; il tema della professionalizzazione dell’artista.
Un processo di ricerca aperto che ripensa il metodo, le reti istituzionali, i formati e rende protagonista il pubblico ha bisogno di una costellazione di risorse, tutte necessarie e complementari tra loro. Studio Roma inizia questo percorso con strumenti che, da un lato, implementano la diffusione delle sue attività oltre i luoghi in cui avvengono; dall’altro, sono pensati come cartina di tornasole per riscontrare l’efficacia dei progetti sperimentali intrapresi che vogliamo tradurre in una piattaforma in cui si sommano le funzioni di una biblioteca, di un museo, di un’università, di un archivio digitale. La Biblioteca dell’Istituto Svizzero e il sito internet di Studio Roma sono gli strumenti principali che svolgono una funzione formativa e divulgativa.
Il sito internet non è un luogo di semplice diffusione degli appuntamenti e degli eventi, ma uno spazio di documentazione e approfondimento di quanto prodotto durante l’anno, che estende nello spazio e nel tempo la disponibilità delle risorse a un pubblico che si fa sempre più digitale, oltre che fisico. Una piattaforma digitale in quattro lingue – italiano, francese, tedesco, inglese – al di là del suo ruolo d’informazione, mette a disposizione i materiali creati durante le attività: le interviste agli artisti, ai ricercatori e ai partecipanti; i testi che contribuiscono ad assemblare i dissonanti elementi della ricerca; le gallerie fotografiche dei luoghi e dei dibattiti; i video degli interventi; i materiali visuali attorno a cui si possono definire nuove esperienze estetiche; i saggi di approfondimento; i testi delle letture in comune; la documentazione della ricerca sul campo e della produzione artistica. Uno sforzo necessario, crediamo, per fare del materiale prodotto non un mero deposito di fonti e studi, piuttosto una fonte di conoscenza necessariamente attuale, con cui ripensare l’organizzazione e la fruizione del sapere tanto nei luoghi fisici che nel campo virtuale.
Il catalogo della Biblioteca dell’Istituto Svizzero è in continuo ampliamento, non solo per le periodiche acquisizioni, ma soprattutto per la sua permeabilità tra i percorsi avviati da Studio Roma e la sua collezione. Accedere alle risorse sarà, a sua volta, parte della ridefinizione del metodo e dello scompaginamento dei confini disciplinari. Le risorse, quindi, vogliono essere strumenti utili alle sperimentazioni e, al contempo, essere contaminate e modificate dagli esiti che queste producono, mantenendo la libertà e la mutabilità di cui la ricerca necessita ripensando le forme di accumulazione, sedimentazione e condivisione della conoscenza nell’organizzazione digitale.
Studio Roma si rivolge a un pubblico ampio senza per questo dover ridurre l’ampiezza della sfida, la precisione nel comprendere le questioni e le difficoltà proprie della ricerca. Non solo i protagonisti classici del mondo della cultura – studenti, artisti, ricercatori, accademici – ma tutti coloro che amano il sapere, pur non essendo specialisti. È la qualifica stessa – età, professione, interesse, provenienza, status sociale – a dover cedere spazio nel momento stesso in cui inizia la ricerca, quell’appagante sicurezza dell’identità che troppo spesso diventa sorda alle competenze emergenti o alle variazioni di linguaggio: i saperi restano inscindibilmente fusi con le determinazioni particolari della propria provenienza. Piuttosto, il pubblico di Studio Roma vuole essere composto da molteplici cerchie relazionali che si intersecano in modo variabile per trovare nuovi punti di convergenza. Tali punti li immaginiamo come appostamenti da cui dipartire: per afferrare le ricerche e intravedere scenari finora non contemplati, per far esperienza del desiderio di conoscere e condividere, per approntare parole mai pronunciate e imparare sempre altro. Il pubblico di Studio Roma non è composto da fruitori o utenti, ma è il terreno mobile e sempre variegato su cui si muove la ricerca. È un pubblico protagonista e attivo. È un pubblico che non solo partecipa, ma crea gruppo e relazione, alimenta dibattiti e frizioni. Studio Roma cresce tra il pubblico per nutrirsi di sinergie e competenze prima sconosciute.
Studio Roma intende ripensare la geografia dei saperi e dell’arte assumendo la rete nella sua variabilità come metodo di relazione prevalente, fuori da ogni ingenuità. Se l’organizzazione reticolare coincide troppo spesso con strutture ramificate e immutabili nella loro gerarchia, Studio Roma tende a farsi reticolare e ad alimentare la creazione di nuovi territori della cultura e della formazione.
A livello decentrato, anzitutto muovendo dalle realtà svizzere, vuole attivare legami con università e accademie d’arte, fondazioni, scuole di alta formazione e politecnici che investono risorse per superare l’eccessiva specializzazione e la segmentazione disciplinare. A livello distribuito, si inviteranno quelle piattaforme di ricerca, prototipi e modelli esistenti per creare una potenziale articolazione istituzionale. Le combinazioni flessibili tra queste saranno i suoi punti nodali. I modelli approntati dalla forma a rete e dalle sue pratiche artistiche potranno così essere introdotti nelle singole istituzioni e moltiplicarne gli esiti nel sistema educativo.
I dibattiti della Gazette permettono così di consolidare le relazioni già avviate e di intraprendere nuovi rapporti a livello europeo. La circolazione del giornale multilingue attraversa ambiti di riflessione, spesso non comunicanti tra loro, per farsi contaminare da pratiche educative e artistiche con cui creare nuovi territori di affinità. Le istituzioni che si federano con Studio Roma non vivono soltanto nelle metropoli, ma nei luoghi di confine, nelle periferie non marginali, in quelle città che mettono in crisi le identità specifiche per tessere uno spazio composito delle differenze.
L’Atelier di Studio Roma è dove l’artista e il ricercatore imparano a essere artigiani esercitando l’immaginazione nell’impiego degli strumenti di lavoro: artefici di un sapere tattile prodotto per contatto, impugnando arnesi di guida e di precisione.
Cosa significa mettere alla prova gli strumenti, se non usarli? Una domanda che lascia immediatamente spazio a un’altra: come usarli? Cercando di sottrarre tali quesiti al tenore dell’ovvietà, il maldestro e il sicuro sono posti fianco a fianco interrogandosi sugli strumenti da usare, e sulla possibilità che questi possano essere modificati dall’uso stesso: se adattare la nostra postura alla loro forma o impugnarli in modo imprevisto e incerto, saggiando il punto di applicazione della forza e maneggiando posizioni diverse. Un processo lavorativo che contempla mosse false, vicoli ciechi e giri a vuoto. Sono proprio gli strumenti messi alla prova a fare dell’intuizione qualcosa che può essere costruito e portare a risultati produttivi. È forse a questo che Walter Gropius si riferiva quando insisteva sulla necessità di un’accurata formazione artigianale per gli studenti della Bauhaus per poter spazzolare contropelo l’accademia: «niente strutture meccaniche ma esperimenti vivi, organici. Tentare, sperimentare, progettare, rigettare». Come Gropius, sappiamo che la potenza dell’immaginazione ha una fertilità che comporta necessariamente incompletezza e ambiguità e che la conoscenza, come le abilità, si costruisce in maniera irregolare, facendo continue deviazioni.
Studio Roma produce esperienze instabili, afferma un’attitudine dalla quale possono emergere soluzioni provvisorie. Prendere in mano la produzione del sapere significa, anzitutto, imparare a lasciare la presa: su un vicolo cieco o una certezza, almeno temporaneamente, per capire di cosa si tratta e poterlo poi afferrare da una nuova angolatura. La libertà di sperimentare intreccia un susseguirsi di aperture a interrogativi in un ritmo che si ripresenta più e più volte. Importante non è tanto innalzare un edificio, piuttosto usare l’ambiguità di una esperienza formativa per rendere visibile il telaio di edifici possibili, come di nuovi possibili problemi intimamente legati a soluzioni precedentemente trovate.
In questo laboratorio di ricerca non convenzionale, che rimette in discussione l’eredità storica delle classiche divisioni tra arte e mestiere, tra tecnica e scienza, essere artigiani è sperimentare una cooperazione basata sul coinvolgimento e la promiscuità intellettuale, dove la dimensione collettiva e quella produttiva non possono essere disgiunte.
Immergendosi nel lavoro concreto, la cooperazione non deve essere scambiata con una generica tendenza alla socialità umana: essa fonda materialisticamente la figura dell’artigiano nel processo produttivo in un lavoro combinato e intrecciato.
Forza creativa per eccellenza, la cooperazione descrive una relazione sistemica alla dipendenza di ciascuno nei confronti di tutti. Forza produttiva per eccellenza, la cooperazione è una realtà che esiste sono nella relazione. Il suo spazio non è mai la somma dei contributi di ciascuno: fin dall’inizio del processo produttivo, vi è una dimensione non riconducibile alla somma aritmetica dei singoli. Alternativa alla predica della competizione individuale, è dove sperimentare un’eccellenza dall’accesso aperto, una qualità della conoscenza prodotta nello scambio dove l’uguaglianza di vedute è considerata una minaccia piuttosto che un fattore unificante. È proprio questa profonda ineguaglianza, dove i saperi di uno sono esposti alla esplorazione dell’altro, a fare del laboratorio di ricerca una guida al cambiamento.
Pensare alla cooperazione non deve far perdere di vista il suo termine complementare: il conflitto e la sua capacità di mutamento, innovazione e trasformazione. Così come la cooperazione, il conflitto tiene in conto la presenza altrui ma lo fa costruendo un’interdipendenza di grado superiore, capace di mutare continuamente i termini di interazione tra le parti. Al contempo, essi non giacciono semplicemente come esperienze antagoniste all’accademizzazione del mondo dell’arte o delle università.
Quali istituzioni per pensare l’estensione delle pratiche formative e, simultaneamente, immaginare relazioni verticali secondo un carattere non-finito, aperto, che impedisca la repentina chiusura del processo? Oggi che la produzione ha una tonalità istituzionale e le istituzioni un carattere produttivo, come sostenere l’occasione sempre aperta di soluzioni diverse? Quello che a noi preme è tratteggiare istituzioni del mutamento piuttosto che interrogarci sul mutamento istituzionale: questo vuol dire pensare la temporalità del mutamento e le sue condizioni di possibilità oltre le qualità dell’effimero o del durevole. Una continuità mutevole, una discontinuità ostinata di sempre nuovi processi materiali, un ritmo capace di fare di una pratica un sapere tacito, e di una tecnica di lavoro una consuetudine. Tra abitudini e innovazione, l’organizzazione dei saperi è l’esito di strategie capaci di continue variazioni, di pratiche irriducibili alla routine amministrativa. Fare di questa logica, che impedisce la rapida chiusura, la guida con cui ripensare la relazione tra sapere e potere, è afferrare il momento istituzionale artefice di spazi aperti, capaci di rimanere tali: paradossali, contradditori e conflittuali. Organizzare l’aperto significa, infatti, accettare il continuo conflitto tra posizioni, modelli e razionalità parziali senza la volontà di risolverlo. Un processo sempre rinnovabile dove assemblare competenze e abilità parziali.
Una istituzione capace di lasciare intatte le tracce della sua crescita: come il disegno abbozzato il cui complesso di segni giustapposti prefigura, in termini generali, l’insieme non definitivamente cristallizzato in ogni suo particolare. La non-finitezza dell’abbozzo rappresenta non tanto il primo avvio nella ideazione di un’opera, bensì la visione vitale capace di anticipare la tendenza ammettendo una certa dose di incompletezza, lasciando volontariamente alcuni aspetti irrisolti. Il tratteggio di istituzioni radicalmente impotenti, capaci di produrre abitudini collettive e di rafforzare la necessità del mutamento.
La prima edizione di Studio Roma ha intrapreso l’indagine del terremoto, in particolare delle sue linee di frattura, contigue e al contempo spezzate, che seguono il precipitare di una crisi. Quest’anno indaghiamo la formazione di un altro tipo di linea, quella della separazione e della gerarchia, nelle sue estensioni e trasformazioni, tanto materiali quanto epistemiche.
Imporre la distinzione tra esterno e interno è sempre stato l’atto con cui segnare il limite dell’impero, delle colonie, della sovranità nazionale. Dalla muraglia cinese al vallo di Adriano, dallo stretto sul Bosforo alla raya del 46° meridiano, dal vallo della Patagonia alle enclosure, dal filo spinato delle praterie alle 21 leghe del Benadir, confini immaginati hanno solcato i continenti per inventare comunità e proteggere appartenenze, linee fortificate si sono dispiegate tra dense popolazioni per imporre diritti proprietari e nuovi ordini di potere.
Da sempre i confini hanno inciso la tela del mondo per segnare una differenza immediata, una distinzione tra due spazi contigui e incompatibili. Una linea si fa confine per rappresentare una contesa, annunciare un conflitto aperto e mostrare rapporti di forza tra entità disomogenee. Se già il confine fisico moderno presentava una complessità nella sua estensione e tipologia, quello attuale – globalizzato e mutato nella crisi – esprime un vero e proprio esercizio di differenziazione che penetra l’interno del territorio stesso in cui dimora. Uno strumento eterogeneo che attraversa i territori per captare il plusvalore prodotto dalla forma cooperativa messa a lavoro, ordinata all’interno di gerarchie – definite dall’alto verso il basso – secondo linee di genere, razza e classe allo scopo di governarla. Il confine, piuttosto che operare come semplice blocco dei flussi, funziona articolandoli, gestendoli temporalmente e spazialmente. Oltre la semplice distinzione territoriale tra Stati, ormai del tutto erosa, è ora impossibile individuare e comprendere gli attriti in termini di relazioni bilaterali, tantomeno comparare identità fittizie. Al contempo, neanche lungo lo stesso confine, metropolitano o trans-nazionale, si dà uno sviluppo omogeneo in ogni suo punto, mentre la sua percezione e i suoi effetti sono sempre differenti, se non antagonisti, su coloro che abitano un lato oppure l’altro di esso. Il mondo – cielo, terra e mare – si è popolato di molte e nuove linee, aree di confine, frontiere del valore, arcipelaghi e corridoi della mobilità, enclave militarizzate e zone di eccezione, regioni transfrontaliere: il confine con la sua funzione di protezione, differenziazione e regolazione ha disfatto la geografia degli atlanti noti per consegnarci la sua decisa spazializzazione.
Tutte le forme assunte dall’esercizio del confine si sono addossate su quella linea d’ombra che vive tra il non-più del presente e il non-ancora dello spazio. Quella linea d’ombra in cui giace la transizione in corso. Non è detto che essa avvenga per rotture drastiche e sovversioni dirompenti. Proprio per questo è ancor più necessario cogliere i mutamenti e le ambiguità dello spazio per saper disegnare, approssimando, la cartografia dei nostri movimenti al fine di indagare il contesto in cui si sta producendo e forgiare un metodo, anche se orientativo e temporaneo, che sappia fronteggiare l’ordine dei confini materiali quanto immateriali. I corpi stessi sono attraversati da confini, da gerarchie che strappano o moltiplicano le appartenenze. Il confine, nella sua moltiplicazione e polisemia, diviene uno spazio interstiziale e ibrido rispetto alle identità rigide della nazionalità. Le appartenenze fisse sono spiazzate per aprirsi alle contraddizioni, alle ambivalenze e alla conflittualità delle terre di confine che operano come un paradigma dell’attraversamento, della circolazione, della mescolanza materiale e della resistenza.
Il metodo dell’indagine di Studio Roma è profondamente immerso in questa ambiguità. Al contempo, usiamo la poliedricità della linea d’ombra senza tralasciare il contesto della sua emergenza. Qui, confini immaginati e fortificati sono stati imposti per difendere tratte della schiavitù e bloccare linee di mobilità, gestire le capacità produttive dei corpi quanto dividerli secondo i classici binomi della colonizzazione: un vero e proprio vocabolario delle opposizioni che durante la modernità dell’Occidente si è andato implementando attraverso appropriazioni, imposizione della valorizzazione, mercificazione delle risorse e rappresentazione dell’alterità. I percorsi turbolenti creati dai migranti e la nuova centralità assunta dalle periferie non marginali ci parlano di una dislocazione del baricentro epistemico e della mutabilità dei rapporti di dominazione. Nel momento di proliferazione dei confini, non è più rilevante stabilire il lato forte e il corpo debole, ma intercettare la capacità di disarticolare le gerarchie e aprire nuovi varchi di attraversamento, incrementare le tracce che ricompongono le rotte della mobilità, individuare le trappole delle rappresentazioni e dell’immaginario che segnano i corpi sulla prima fortificazione di un lungo viaggio di confini.
Allora è opportuno annotare le coordinate sul diario di bordo per non perdersi lungo uno dei confini più antichi della rappresentazione e uno dei più recenti delle istituzioni non nazionali. Meriç, fiume che scorre da Edirne al mare di Samotracia, segna adesso il confine tra Grecia e Turchia, tra Unione Europea e il suo esterno, tra cittadini e “illegali”, tra…
La ricerca di Studio Roma è circostanziale e comune, rimane nelle condizioni, fa parte di una situazione, è legata a un contesto. Il sapere così prodotto ci permette di essere intercettati e coinvolti in discussioni e opere di altri. La sua mise en scène necessita di premesse sociali: è in stretta dipendenza con strumenti, materiali e azioni. È indissociabile dall’ambiente in cui avviene: lo spazio è infatti materialità del tempo condiviso, il tempo cristallizzato della cooperazione. Lo sfondo emerge allora in primo piano dove si situano i processi dello scegliere e dell’usare strumenti, e come intreccio di rapporti; in altre parole, il pubblico senza il quale la conoscenza, semplicemente, non si dà.
In tal modo, Studio Roma propone una prospettiva situata, permettendoci di superare la distinzione tra conoscenza e esperienza, tra la produzione di conoscenza e il fare esperienza. Al confine tra arte e scienza si sviluppa un duplice legame: tra la conoscenza e la pratica, tra la pratica e il contesto.
Allo stesso tempo, la ricerca di Studio Roma è una ricerca di parte. È una parzialità capace di mettere in questione lo sguardo e le gerarchie implicite dell’interrogare. Propone un punto di vista dove situare la pluralità delle dimensioni biografiche e culturali, e da cui osservare le asimmetrie fuggendo sia il pericolo di romanticizzare l’altro, sia di appropriarsi della visione e delle parole di coloro che non sono in una posizione di forza. Invece, si tratta di comprendere l’angolazione delle asimmetrie e di ogni specifica posizione. Un punto di vista parziale in tutte le sue forme, mai finito o integro, mai originale, sempre costruito e ricucito imperfettamente, e perciò capace di unirsi a un altro per vedere insieme senza pretendere di essere un altro. Una parzialità non fine a sé stessa, ma diretta a inattesi collegamenti e aperture. Tutto questo è reso possibile da un posizionamento: è la parzialità, non l’universalità, la condizione di produzione del sapere. Una connessione spaziale quanto parziale per una ricerca della traduzione.
Studio Roma si posiziona nel Medio-sud, terreno di mezzo della traduzione dove Nord e Sud si contendono e si contrastano. La traduzione, lontano dall’essere un processo di omogeneizzazione e operazione di equivalenza, è un atto di proiezione, di negoziazione che istituisce una relazione nello spazio dell’incommensurabilità.
Come scrive l’artista Miltos Manetas: «Nella parte occidentale del Nord sta nascendo un nuovo Medio-sud. Il nuovo Medio-sud è già visibile in territori in trasformazione come la Grecia e l’Italia da Roma in giù». Il Medio-sud è dove i vettori che tramano il potere globale affermano un’espansione, giocata su diversi livelli di scala dove tutti, in modi diversi, sono coinvolti. Nel Medio-sud, il Nord si è radicato attraverso strategie di espropriazione e appropriazione, ma la sua presenza e il suo operare non sono dati una volta per tutte sono onnipresenti.
Allo stesso tempo, nel Medio-Sud si spiegano linee di fuga che sovvertono i rapporti di scala esistenti, creando continuamente pratiche di resistenza all’ordine neoliberale, sperimentando forme di solidarietà, mutualismo e produzione fondate sull’uso. In breve, il Medio-sud è lo spazio dell’uso comune di competenze e esperienze, che rifuggono la dipendenza o il vincolo all’ordine epistemico del Nord. L’Europa allora, piuttosto che essere la somma di Stati nazione o la divisione tra distinte aree di egemonia, è uno spazio frastagliato dove il Sud e il Nord continuamente si sovrappongono, lottano e coesistono l’uno dentro l’altro.
Qui i processi di selezione legati ai saperi e alla provenienza geografica producono gerarchie forse anche più dure e efficaci di quelle precedenti, dando luogo a una sistematica differenziazione geo-istituzionale. In questo contesto, la crescente importanza del Mediterraneo è attraversata dalla nuova centralità del confine orientale verso l’Eurasia, dove Italia, Grecia e Turchia in particolare, diventano il perno su cui costruire uno spazio di traduzione. Studio Roma vuole seguire le tracce dei movimenti e le esperienze conflittuali che vivono in questo Medio-sud, dove le trasformazioni indipendenti sono continuamente sfidate nel conteso spazio europeo.
Studio Roma è allora un campo di forze posizionato non tanto in una località fissa, piuttosto tra tensioni, risonanze, trasformazioni, resistenze e complicità. Tutto risulta evidente quanto elusivo, impenetrabile quanto esplorabile, estraneo e familiare allo stesso tempo: tale ambiguità è lo spazio in cui si posiziona il traduttore facendosi investire in pieno dalla differenza.